venerdi sera gruppo di ricerca medianica e spiritismo

Quelli che sono morti non se ne sono mai andati sono nell’ombra che si rischiara e nell’ombra che si ispessisce I morti non sono sotto la terra sono nell’albero che stormisce, sono nel bosco che geme, sono nella dimora, sono nella folla Ascolta più spesso la voce del fuoco, odi la voce dell’acqua ascolta nel vento del cespuglio i singhiozzi è il soffio degli antenati I morti non sono sotto la terra, sono nel seno della donna. sono nel bimbo che vagisce sono nel fuoco che si spegne

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03 luglio 2006

trentagiugno 06


Ancora, adesso io, Emanuele, per il cerchio, il cerchio spiritico.
Proprio quando tutto quanto corre e l’urgenza diviene palpabile, concreta, proprio in quel momento c’è bisogno di fermarsi, creare un attimo di silenzio, permettere che i suoni, i colori, le vibrazioni attorno a noi si chetino, che non ci sia disturbo, distorsione a quella che è la nostra presenza, alla presenza del nostro sentire.
Mi accorgo che è giunto questo momento, capisco e A. mi ha fatto la misura che la mia affermazione riguardo al cedere alla malattia abbia creato un urto, una distorsione, una incomprensione. Ma credo che sia importante anche cedere alla malattia, cedere alla cosa più pericolosa, cedere alla violenza, all’incapacità, all’impotenza: in fondo è il cedere più grande, è la possibilità più capace, di qualità migliore, ma capisco anche che sia difficile, proprio nel momento in cui la violenza dell’urgenza, la presenza della malattia diviene pressante.
Cedere alla malattia è cercarne la vibrazione, cedere alla malattia è permettere la sua espressione, cedere alla malattia è porre orecchio, attenzione, disponibilità.
La violenza della malattia, l’impotenza di fronte ad essa, l’incapacità di avere strumenti per poterla combattere, vincere, annullare: torno a dire, non sono in grado di parlare di malattia, non ci sono passato attraverso, non l’ho conosciuta, non è stata parte di me, ma so bene cos’è la violenza e l’incapacità, l’impossibilità di fronte ad essa.
Posso provare a parlare di essa, per quella che è la mia vita. Io prete, io maestro nella preghiera, io che fui costretto a pregare.
Ricordo bene quando i tempi correvano e quando l’accusa nei miei confronti mi portò a subire l’onta, ma anche la luce, di quel processo; ricordo bene con che astuzia il mio fratello Giustino lasciò spazio attorno a me, mi permise di essere bello, sì, appariscente, mi permise di vestire le mie vesti migliori, per farmi subire l’affronto di lui che si poneva come giudice, vestito solamente del saio, del saio scuro.
Io ebbi la possibilità di mostrarmi per quello che ero, ebbi la possibilità di creare attorno a me quell’immagine che qualche giorno prima avevo rifiutato. Io la vestii di nuovo e lui abile fu a solleticare la mia gloria affinché io vestissi di nuovo quei panni che avevo rifiutato e lui, che avrebbe dovuto vestirli al posto mio, me li offriva. Io subii il processo da protagonista, fu una immagine che rifulgeva nella sua luce, nei suoi colori; mi ci trovai bene, tanto che non ebbi bisogno mai una volta di chiedere aiuto, di pregare Dio affinché potesse illuminare la mia mente e dare misura di ciò che stavo facendo.
La mia vanagloria fu la traccia per me, ma giunse anche la condanna, una condanna senza possibilità di appello che io avevo aiutato, proprio con i miei atteggiamenti sprezzanti.
Solo allora fui rinchiuso, quando certo Giustino fu che non mi restava scampo. Allora sì non mi permise più di apparire, allora sì limitò la mia possibilità, allora sì mi impedì di incontrare gli altri, e fui rinchiuso. Dapprima fu ancora piacevole questo togliermi gli abiti colorati, sontuosi, per indossarne uno che dava l’immagine del tapino. Quando mi riconobbi tale presi coscienza e subii la violenza dell’impossibilità di fare qualcosa; avrei ben voluto certamente smettere di giocare, avrei probabilmente anche rinnegato tutte quante le mie belle affermazioni ma Giustino, il mio fratello Giustino, buona conoscenza aveva di ciò che era Emanuele e , a quel punto, mi impedì di tornare indietro.
Mi sentii affogare…mi sentii abbandonato, solo. Io me ne volevo andare, ma tanta più forza mettevo a battere i pugni su quella porta, la porta diveniva ancora più spessa, ne veniva chiusa un’altra, una seconda, una terza, affinché il rumore – lo sciocco rumore che facevo – non uscisse da quella cella che, quando ancora non conoscevo, non ne avevo misura, chiamavo “la mia casa”.
Più nessuna possibilità ebbi. Quando mi vennero a prendere, braccia forti mi tenevano e io urlai.
Mi venne letta la motivazione della mia condanna e non esisteva pubblico a sentirla, non esistevano amici, fratelli che potessero vedere Emanuele.
2


Mi ribellai, ma a nulla serviva…non più…
Solo allora, nella mia cella, mi accorsi che mai ebbi cercato il mio Dio, mai Lo avevo invocato; mi sentivo forte a sufficienza, rifulgevo di luce mia, non avevo bisogno di riflettere luce di altri, mi piacevo, ero il martire che alto davanti a sé reggeva il vessillo. Lo cercai nelle mie mani ma non c’era più, era solo un’oscura pertica che diveniva giorno dopo giorno più pesante.
Non ci stavo più, non era ciò che io volevo, ciò che io desideravo era ben altro, ma tutto ciò che avevo caricato sopra questo mio modo di essere, di fare e di pormi di fronte agli altri, mi aveva fatto dimenticare ciò che avevo trovato nella mia grotta di Qumran, e abile, intelligente fu il mio fratello Giustino a tentarmi ancora per l’ultima volta e io sciocco, uomo, sottostai.
Il giorno prima dell’esecuzione cominciai a rinsavire, ritrovai Emanuele e il bisogno che Emanuele aveva del suo Dio. Lo pregai, dapprima distratto, ritrovai la Sua presenza e mi saziai di essa, mi dissetai fino a che – ebbro – ringraziai il Suo Nome.
Ma fu la violenza che mi portò a questo stato, fu l’impotenza a permettermi di capire. Le mani che mi portavano fuori dalla mia cella non erano più così pesanti, rozze e brusche, e docilmente ad esse mi abbandonai e cedetti al mio destino, e non fu un cedere alla morte, ma cedere a una nuova rinascita.
Non so quanto l’essere con voi di Emanuele, di A. e di S. possa aiutarvi ad amare C. ma qualcosa deve avvenire, qualcosa deve mutare, la magia deve manifestarsi….

Ancora , adesso io, A. per il corpo comune.
Cerchiamo la catena, portiamo tutti quanti gli amici e i nostri cari qui con noi…ne abbiamo tutti quanti bisogno.
Poniamo C. , la nostra amica C. , al centro della nostra catena e accendiamo la candela che di fronte a lei si trova. Possiamo distinguere il viso di C. illuminato dalla candela. Sentiamo l’energia che scorre in questa catena, lasciamoci colmare da essa………………………………………………..
Lasciamo ora C. e visualizziamo il nostro prato; cerchiamo gli amici all’interno di questo prato, i loro fiori, i loro colori….cerchiamo C. e suo marito T……………………………………………..

Ho bisogno…ho bisogno di chiedere a voi aiuto, ho bisogno che portiate qui, tra di noi, C. ….
Non voglio che rimanga sola, così come è avvenuto per me. Io lo scelsi…ma non deve succedere questa volta. Ho difficoltà anch’io ad avvicinarmi a lei, in questo periodo.
Aiutatemi ad essere con lei; qualcosa deve avvenire, qualcosa senz’altro deve accadere e io ho bisogno che voi mi aiutiate.
Ho bisogno che avvenga questo, non voglio perdere anche questa occasione.

Vado ora. Un bacio a C. e a voi tutti, amici.